Pregiudizio e immigrazione: bufale e dati nero su bianco

Pregiudizio e immigrazione

Pregiudizio e immigrazione: bufale e dati nero su bianco

Quando ho deciso di scrivere un articolo sui pregiudizi che riguardano l’immigrazione, immediatamente ho pensato che avrei dovuto scendere nel dettaglio di tutti quei “sentito dire”, “si dice che” e, dati alla mano, smontarli pezzo per pezzo per verificarne il grado di fondatezza. Credevo infatti che solo con la razionalità dei numeri si potesse fronteggiare il rischio di una deriva pericolosa nell’acceso dibattito politico che anima il tema. Volevo che fossero i numeri a parlare, ritenevo che questo potesse essere l’unico modo per dare al lettore uno strumento utile alla comprensione della realtà e per poter intavolare poi eventuali dibattiti.

La conferenza: ovvero quando una frase demolisce un metodo di lavoro

Ho iniziato quindi a estrapolare cifre da diverse fonti ufficiali e pubbliche, perché tutti potessero verificarne di persona la veridicità. Il lavoro è continuato così. Fino al 30 agosto.

Quel giorno ho partecipato con alcuni ospiti del centro di accoglienza di Romano ad un incontro di avvicinamento alla biblioteca vivente, un metodo innovativo nella promozione del dialogo e nella destrutturazione dei pregiudizi, tanto da essere riconosciuta dal Consiglio d’Europa come buona prassi nei percorsi di dialogo interculturale.

Durante la riunione il formatore ha illustrato molto chiaramente le caratteristiche del pregiudizio: si tratta solitamente di una frase breve, solitamente generalizzante, del tipo “tutti i membri del tal gruppo presentano il medesimo elemento distintivo”, dove il tal gruppo identifica solitamente una minoranza ben precisa; il pregiudizio si diffonde viaggiando di bocca in bocca, è mobile, paradossalmente è un migrante e noi i suoi scafisti. Il pregiudizio, infine, è irrazionale: non conosce testa, se la vede con la pancia. SBAM! La mia rocca di numeri e statistiche è crollata in un colpo solo. In quell’istante ho capito che avrei potuto approfondire le mie ricerche nel modo più dettagliato possibile, ma nulla di tutto questo avrebbe potuto scalfire il pregiudizio: l’effetto sarebbe stato paragonabile a quello di un dialogo tra un parlante italiano e un parlante wolof, due lingue troppo diverse per potersi comprendere.

Scervellandomi su come rimbastire il mio articolo ho pensato che avrei dovuto scegliere una strategia comunicativa più accattivante, probabilmente più urlante. Prima di ragionare sul senso della buona accoglienza, avrei dovuto colorare un po’ il mio linguaggio, anche a costo di dar meno rilevanza alla realtà se non addirittura di oscurarla, solo un pochino, l’importante sarebbe stato l’impatto. Sicuramente avrei dovuto plasmare il mio messaggio ad hoc per i canoni delle bacheche social, la nuova arena del confronto politico, confidando nel fatto che spacciando informazioni incomplete o inesatte ben in pochi avrebbero smascherato la notizia.

Prima di provare a raccontare perché la migrazione è un fenomeno inarrestabile che ci coinvolge tutti e in che modo essa possa rappresentare una risorsa anche nella nostra comunità, avrei dovuto parlare la stessa lingua del pregiudizio. Ma forse, per questo, non mi sento ancora pronta.

Per questo riprendo la mia ricerca iniziale e confidando sulla vostra voglia di conoscere sintetizzo i punti più interessanti.

1) Immigrazione=invasione, ovvero ma quanti sono?

Se l’incremento degli arrivi negli ultimi anni è noto a tutti, pochi in realtà conoscono i numeri reali dell’accoglienza. Complice di questa vaghezza è anche la facile confusione tra i flussi di richiedenti asilo e la presenza straniera più in generale. Stando al Rapporto Italia 2018 elaborato da Eurispes, il 35% degli intervistati ritiene che gli stranieri in Italia siano il 16% della popolazione, e ben un quarto del campione afferma che gli stranieri siano il 25%, 1 ogni quattro abitanti. Un’ulteriore discrepanza nella percezione riguarda, secondo la stessa indagine, la sovrastima dei flussi migratori che arrivano dai Paesi dell’Africa Subsahariana [FONTE: EURISPES].

I dati a disposizione ci raccontano un’altra storia: dall’inizio del 2013 e il 22 agosto 2018 sono state presentate in Italia 446.121 richieste di asilo [FONTE EUROSTAT: Asylum and first time asylum applicants by citizenship, age and sex Annual aggregated data e MINISTERO DELL’INTERNO].

Nell’ipotesi inverosimile per cui tutti i richiedenti si trovassero ancora nel nostro Paese l’incidenza sulla popolazione sarebbe dello 0,7%.

ISTAT ci fornisce invece un quadro preciso della più ampia presenza straniera in Italia: a fronte di una popolazione di 60.494.000 residenti all’1 gennaio 2018, gli stranieri sarebbero 5.065.000, l’8,37% . Di questi, il 50,93% ha cittadinanza europea (UE ed extra UE); seguono a grande distanza le provenienze africane con il 21,31% e quelle asiatiche con il 20,48%. Le nazionalità più rappresentate sono la Romania (23,1%), l’Albania (8,6%), il Marocco (8,1%), la Cina (5,7%) e l’Ucraina (4,6%) [FONTE: ISTAT].

2) Non scappano dalle guerre, ovvero perché mai dovrebbero lasciare casa loro?

Oggi quando parliamo di migranti e richiedenti asilo ci ronza tra le orecchie l’etichetta di migranti economici, e tendiamo a volerla ben distinguere da quella dei rifugiati politici, sottintendendo con nemmeno troppo velata art diplomatique che i cari signori potrebbero tranquillamente starsene a casa loro. Il punto è che sembra sfuggirci il nesso per cui sono esattamente le scelte politiche di un Paese e dei suoi governanti a determinare le condizioni economiche disastrose in cui intere popolazioni versano senza possibilità di migliori prospettive.

L’estrazione e lo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali, l’appropriazione indebita delle terre, concessioni minerarie o petrolifere insostenibili sul lungo termine e in ultima analisi impoverenti, il ruolo delle scelte politiche ed economiche nei processi del cambiamento climatico, la costruzione di grandi dighe. Tutte queste azioni, pur così diverse tra loro, rendono invivibili i territori di appartenenza, sono complici di una distribuzione della ricchezza che crea e accresce le diseguaglianze, che limita fortemente le possibilità di accesso al sistema sanitario e ai gradi di istruzione, che stabilisce condizioni lavorative discriminanti. Tutto ciò contribuisce ad un contesto irrispettoso della dignità umana.

Oxfam afferma che tra il 2008 e il 2016 sono stati 22 milioni i migranti climatici, coloro che lasciano le proprie terre a causa sia di fenomeni meteorologici estremi o per via delle condizioni ambientali diventate invivibili [FONTE: OXFAM]. Queste cifre sono destinate a crescere: un report di marzo della Banca Mondiale stima che entro il 2050 ci saranno 143 milioni di migranti climatici INTERNI, ovvero facendo riferimento alle sole persone che si spostano all’interno dello stesso Paese. Di questi, 86 milioni sarebbero coinvolti nel solo continente africano. [FONTE: BANCA MONDIALE].

Secondo un articolo pubblicato dalla rivista Science lo scorso dicembre, se l’aumento del clima non sarà fermato, le richieste di asilo a livello globale aumenteranno del 188% entro la fine del secolo [FONTE: SCIENCE].

3) Ci rubano il lavoro, ovvero ….

Questa è probabilmente la preoccupazione principale di fronte alla temuta invasione. Il podio è giustificabile se pensiamo che in fondo questa affermazione parla di altro: non di barconi di uomini ma di noi, del senso di precarietà e incertezza che la crisi economica dell’ultimo decennio ha semplicemente, ma enormemente, acutizzato.

Nel gennaio 2016 una pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale ha fatto luce sui benefici economici legati ai flussi migratori dei richiedenti asilo e le conclusioni smorzano i timori secondo cui l’arrivo di manodopera a basso costo possa ridurre le aspettative d’impiego per le comunità locali. Il motivo principale sarebbe la sostanziale diversità dei settori d’impiego. Pensiamo anche solo alle difficoltà linguistiche dei nuovi arrivati e alle conseguenti limitazioni nell’inserimento lavorativo. Statisticamente una buona percentuale di immigrati è rappresentata da lavoratori non specializzati: in alcuni settori il timore della potenziale concorrenza spinge gli autoctoni a volersi qualificare per alcune mansioni specifiche, percorso che non porterebbe alla perdita del lavoro ma anzi a raggiungere posizioni lavorative più elevate con conseguenti avanzamenti di carriera.

 Ampliando lo sguardo, l’impatto dei migranti sulle economie dei paesi accoglienti, nel lungo termine, è determinato dal successo del loro inserimento. La maggioranza di essi è in età lavorativa, lontana dalla pensione; senza contare che il tasso di natalità delle comunità straniere controbilancia l’invecchiamento della popolazione e i conseguenti costi sul sistema sanitario. In Paesi con alti tassi di disoccupazione l’inserimento lavorativo dei migranti, con il suo portato positivo, potrebbe richiedere un termine più lungo. Va comunque detto che statisticamente, ma anche per semplice buon senso, i migranti prediligono destinazioni con bassi tassi di disoccupazione, ovvero maggiori opportunità lavorative. Per tutti. [FONTE: FMI].

Il sistema stesso dell’accoglienza è infine un settore che negli ultimi anni ha favorito occupazione e crescita economica.  Uno degli aspetti che raramente viene considerato sul piatto della bilancia è che l’apertura di un centro di accoglienza favorisce in genere l’indotto economico locale: in termini di forniture alimentari ad esempio, servizi di manutenzione e creazione di posti di lavoro, nonché, spesso, rimessa in uso di strutture di ricezione turistica spesso abbandonate.

Ma questa è un’altra storia, ovvero:

4) Dobbiamo fermare il traffico di uomini: chi lo gestisce fa affari sulla pelle di quei poveri disgraziati

Vero: i casi di mala gestione esistono e rappresentano un volto dell’Italia che non vorremmo mai vedere. Fu Salvatore Buzzi in un’intercettazione nell’ambito dell’inchiesta Roma Capitale a dichiarare che

con gli immigrati si fanno più soldi che con la droga.

Se anche nessuna delle storie raccontate qui sopra dovesse continuare a reggere, quest’ultima non potrà far altro che mettere tutti d’accordo. Buoni e cattivi, chiunque vuole fermare questo indegno traffico, magari solo con qualche divergenza di metodo.

Il punto qui non è non accogliere, o respingere, o stringere accordi per finanziare un maggior controllo libico a terra e per mare, perché questo vuol dire in realtà alimentare quel traffico di esseri umani, come ben documenta il Rapporto Annuale di Amnesty International 2017-2018 per il Medio-Oriente e l’Africa del Nord [FONTE: AMNESTY INTERNATIONAL].

Una volta raggiunta questa consapevolezza è giusto guardare al modo in cui il sistema di accoglienza funziona in Italia, un servizio che fa capo al Ministero dell’Interno ed è operativo sul territorio per mezzo delle Prefetture. Queste ultime selezionano a mezzo di bando gli enti gestori che operano concretamente sul territorio e nei centri di accoglienza. La mala gestione ha l’occasione di prosperare laddove vengono meno le operazioni monitoraggio da parte degli organi di controllo deputati, azioni quanto mai urgenti se è vero che la dimensione dell’emergenza include più facilmente il rischio di zone grigie.

A fronte di tutto ciò, se può consolare, esistono e sono numerosi gli enti che lavorano in modo serio, facendo rete tra di essi e con i territori in modo controllato e certificato, è il caso degli enti che aderiscono alla carta della Buona Accoglienza, tra cui anche la Cooperativa Gasparina di Sopra. Il documento è stato siglato da Alleanza delle Cooperative Sociali Italiane, ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e Ministero dell’Interno con l’obiettivo di instaurare un circolo virtuoso tra diritti da tutelare e utilità sociali da condividere tra migranti e comunità di arrivo.

Se l’accoglienza è questo allora può aver senso valorizzarla poiché è in questa forma che essa rappresenta una risorsa per la nostra comunità sul lungo termine [FONTE: MINISTERO DELL’INTERNO]

Tags: